freccettina Newsletter
freccettina Ricerca

freccettina tutti gli appuntamenti di vag

Mercoledì 1 ottobre'08, alle ore 21 a Vag61 in via Paolo Fabbri 110

"Vogliamo un altro mondo" di Piero Bernocchi

Vogliamo un altro mondo Dieci anni fa scrissi un libro sul movimento del ’68 e su quelli del successivo decennio rosso. Pensavo che non sarei tornato sul tema, almeno non con scritti organici e compiuti. A proposito di quel testo basterà dire che, come chiarisce il titolo “Per una critica del ‘68”, dopo anni di valorizzazione e divulgazione da parte mia dei punti alti, delle “rose” del ’68, vi affrontavo le “spine”, le cadute, le contraddizioni, le ombre, gli elementi negativi, i passi indietro rispetto alle premesse (e promesse) di quel grandioso movimento, che segnò l’inizio di una nuova fase storica della forma-movimento e della trasformazione/rivoluzione sociale.
Ritenevo di aver detto, nell’arco di trenta anni, più o meno tutto quello che da parte mia c’era da dire sull’argomento. Ma alcuni elementi di notevole peso mi hanno fatto sentire l’esigenza di rivisitarlo, di rileggere la permanente attualità di quello storico salto di qualità sociale, politico e culturale nel cammino di chi non accetta il capitalismo come orizzonte permanente e finale dell’umanità: insomma, di valutare “rose” e “spine” alla luce degli ultimi accadimenti globali e nazionali.
Il primo elemento che mi ha spinto a ritornare su una analisi del movimento del ’68 (e degli anni del “decennio rosso”) è stata la seria possibilità – in base al quadro politico generale e al clima culturale e ideologico dominante in questa fase - che il quarantesimo anniversario venga usato in Italia, nonostante la grande distanza temporale, per sparare ad alzo zero su quel potente movimento, utilizzando ancor più il leit-motiv, già usato varie volte in questi ultimi anni, della continuità tra la rivolta sessantottesca e il “terrorismo” delle Brigate Rosse e degli altri gruppi armati.
E’ presumibile che coloro che cercano quotidianamente di plasmare e addomesticare l’opinione pubblica e l’immaginario collettivo italico (spesso proprio i transfughi, i pentiti e i preti spretati del ’68) si daranno da fare, soprattutto quest’anno, per cancellare ulteriormente tutti i contenuti reali di quel possente movimento di ribellione e di liberazione che tanto incise sui poteri economici e politici, sulla cultura, sul lavoro, sulle gerarchie e sulle caste dominanti: l’obiettivo è consegnare alle nuove generazione immagini di grande caos, bailamme distruttivo e nichilista, in mezzo a rumori e a odori di pistolettate e polvere da sparo.
I primi segnali che arrivano, mentre sto per consegnare alle stampe questo scritto, mi confermano in tale previsione, con il cardinal Bertone e la straripante gerarchia ecclesiastica che scomunica ex-post il ’68 definendolo “un mondo contro Dio”, alla base di ogni successiva Sodoma e Gomorra, di ogni deviazione sociale, culturale, spirituale e morale; e addirittura con Umberto Eco che si sente in dovere di precisare che il ’68 non fu “solo terrorismo”.
Ma forse, se mi fossi aspettato che tale campagna partisse solo dal pollaio-Italia- da una nazione più che mai alle prese con il suo terrificante gravame ideologico, culturale e sociale, con l’imperversare delle gerarchie vaticane e delle mafie, del trasformismo e supremo camaleontismo politico e della corruzione istituzionale sistemica, che sembra di botto tornata indietro di una cinquantina di anni, se non, in quanto a laicità e clericalismo di secoli: un’Italia che, in tutte le sue componenti di potere economico, politico e mediatico non solo non ha mai metabolizzato il ’68 ma che ha lavorato indefessamente a spazzare via ogni traccia di quel rivolgimento epocale, anche a costo di far tornare indietro di decenni l’evoluzione sociale e la coscienza collettiva del paese - non mi sarei deciso a scrivere.
In realtà, ha inciso molto un secondo elemento che mi ha riproposto in modo clamoroso la freschezza, l’attualità e la permanente influenza del Sessantotto sull’oggi sociale e culturale, arrivato imprevedibilmente dalla Francia. Ammetto di essere rimasto molto sorpreso dalla apparentemente spropositata battaglia di Nicolas Sarkozy contro lo “spirito del ’68 e il suo perdurante lascito nella nostra società”, condotta dal neo-presidente francese durante la sua recente campagna elettorale per l’Eliseo.
Essa è stata addirittura il filo conduttore del suo tentativo, riuscito oltre ogni previsione, di presentarsi non solo come l’uomo nuovo e salvifico per la Francia ma addirittura come il riparatore di guasti, storture, malattie che sarebbero stati introdotti e inoculati nel corpo sociale della Francia e dell’Europa proprio dal ’68. In un campionario per nulla nuovo - vi ho rivisto i temi di successo del primo Reagan e della Thatcher, oltre che di Berlusconi, tematiche e obiettivi del neoliberismo capitalista dell’ultimo trentennio - la vera novità è parsa il sistematico puntare al bersaglio del ’68 come vera e propria incarnazione globale di tutto ciò che sintetizza l’ostilità al capitalismo e che, in qualche modo, aveva avuto ampia cittadinanza sociale e ideologica nel dopoguerra.
Se vogliamo, l’elemento sorprendente (mi è sorta potente la domanda: “Perché un conservatore neo-liberista come Sarkozy sente l’esigenza di dichiarare al mondo e alla Francia di essere nemico del ‘68 e di volerne spazzare via i perduranti lasciti?”) è stato che questo scontro ideale, culturale e politico venisse proposto, in maniera peraltro secca e brutale e in tempi rapidi, in un paese come la Francia che ritenevo avesse, a differenza dell’Italia, metabolizzato e integrato (anche in quanto massimo simbolo di quella lotta: si cita ovunque il “maggio francese”) il movimento del Sessantotto.
Ma dalla Francia, che in passato mi era capitato sovente di citare come esempio di capacità di assimilazione dei rivolgimenti sociali, l’evento mi è giunto davvero inatteso e mi ha convinto che in realtà la metabolizzazione del ’68 non è davvero avvenuta né in Europa né in nessun altro paese tra quelli dominanti la scena del capitalismo mondiale, che Monsieur le Capital non è mai riuscito a digerire davvero quel “boccone”, che, nonostante la miriade di pentiti e preti spretati che hanno cambiato campo accorrendo, ben pagati e ricompensati, alla sua corte, il Potere ha continuato a considerarla una polpetta avvelenata e inassimilabile dal corpo dominante sociale.
L’ipotesi a cui sono giunto è che, in una fase di forte instabilità economica, politica, sociale ma anche di legittimazione ideologica e culturale che prefigura una possibile crisi di egemonia, le principali centrali di potere dei padroni del mondo sentono più che mai l’esigenza di cancellare ogni traccia di possibile alterità, pensiero alternativo o conflittuale movimento sociale che sia, il cui solo richiamo potrebbe costituire, in caso di diffusa crisi economica e di legittimità del potere, un riferimento pericoloso.
Proprio qui sta l’intreccio con il terzo elemento che mi ha tolto ogni dubbio sull’utilità di riprendere il ‘68 e di rileggerlo alla luce dell’oggi: il fatto che l’attualità di quel movimento - che negli anni ’90 era stato abbandonato nel dimenticatoio anche dai suoi più acerrimi nemici - è stata resa tale dall’esplosione nel mondo all’inizio del nuovo secolo (ad essere pignoli, dagli ultimi giorni del vecchio, con la clamorosa contestazione del vertice del WTO del dicembre 1999 a Seattle), di un nuovo e anch’esso inaspettato movimento, quello contro la globalizzazione liberista, che per comodità e semplicità abbiamo definito no-global, nonostante il termine possa far pensare ad ostilità verso una qualsivoglia mondializzazione da parte di un movimento animato invece da un pacifico, ugualitario e democratico spirito globale.
Con tutta probabilità Sarkozy e la moltitudine che durante questo anno scoprirà le batterie per far fuoco sul ’68 e sui suoi lasciti, parlavano e parleranno a nuora perché suocera intenda: insomma, si attacca il Sessantotto per dare un ultimatum ai nuovi movimenti sociali, che hanno fatto irruzione sulla scena dal 2000 in poi, con una graduale e indiscutibile estensione mondiale; e che rappresentano, come il ’68 ma con dimensioni mondiali persino amplificate, non solo la radicale messa in discussione della società esistente ma anche la presentazione globale di un progetto alternativo di un altro mondo possibile e indispensabile, per aggiornare l’obiettivo lanciato dal primo Forum mondiale di Porto Alegre e baciato da un successo mondiale con ben pochi precedenti.
Con i no-global sulla scena, si ripresenta il conflitto nelle grandi metropoli del Capitale, mentre negli altri luoghi del suo dominio, dal Medio Oriente all’Asia, la resistenza dei popoli alle brutali aggressioni belliche raggiunge insperati successi, blocca la potente macchina da guerra USA, mentre in America Latina addirittura giunge ad prendere possesso di alcuni governi: è il ritorno della cultura del conflitto coniugata con la realistica (assai più che nel ’68) delineazione di un’alternativa di mondo possibile ad allarmare significativamente il potere economico e politico occidentale e a mettere in allarme, in movimento contro i movimenti, le sue potentissime macchine ideologiche e mediatiche.
Ed è appunto del filo conduttore che dal ’68 ci porta ai movimenti odierni che ci pare utile parlare, analizzando le evoluzioni e i mutamenti della forma-movimento e della sua influenza nella trasformazione della politica e della società a livello globale. Cercando di raggiungere anche il quarto motivo/obiettivo che mi spinge a riparlare in modo organico del Sessantotto: e cioe’ la necessità di attualizzare la consegna del “filo rosso” dei movimenti antagonisti e anticapitalisti alle nuove generazioni arrivate all’impegno politico, alle quali – nei ben noti limiti che hanno i tentativi di trasmissione delle esperienze – andrebbe consigliato di evitare, nei riguardi del ’68, due estremi, speculari: l’esaltazione di una esperienza vista come irripetibile e unica, e dunque mitizzata omettendone i limiti e le contraddizioni, arrivando poi a sottovalutare i pregi dei movimenti attuali; o, al contrario, il ripudio di una esperienza vista come irrimediabilmente datata e disseccata, incapace di trasmettere insegnamenti o lasciti alle attuali vicende di movimento.
Naturalmente sono consapevole di quanto spesso risulti fatica di Sisifo il tentativo di mettere in contatto con “fili rossi” questo e quello, di inanellare così i grani dei movimenti disseminati negli anni o nei decenni, cercando di trarre lezioni dalle esperienze passate e di trasmetterle: il macigno della coscienza acquisita, che ci si era illusi di aver portato sulla sommità della china, rotola inesorabilmente verso valle. Ma se gli emuli di Sisifo riuscissero perlomeno a tenere fermo il macigno a metà strada, in attesa di una nuova e poderosa spinta collettiva.

Piero Bernocchi

©opyright :: Vag61
Tutti i materiali presenti sul sito sono distribuiti sotto Creative Commons Attribution-ShareAlike 2.0.
All content is under Creative Commons Attribution-ShareAlike 2.0 . Powered by Phpeace